La scuola (è ancora) fascista

Questa bambina era, ovvero sarebbe stata, la mia pro-zia. Non è mai diventata madre perchè non è arrivata neppure alla pre-adolescenza. Giunse in fin di vita al Meyer di Firenze. Sua sorella, di due anni più grande, Marisa, ricordò fino al giorno prima di morire ben ottantaquattro anni dopo, il momento dei saluti, quando Anna Maria venne portata a Firenze partendo da Viareggio. La dimisero dal Tabarracci, il vecchio ospedale, e lei salutò Marisa dal lunotto posteriore. Di Anna Maria, mia nonna Marisa ricordava solo quel piccolo braccino che si muoveva, con la speranza di riabbracciarsi. Ma Anna Maria morì. 

Ho deciso che Anna Maria e tutte le sue piccole cose che la madre, Eda, tenne di ricordo, possono essere molto utili per scrivere oggi di alcuni concetti che ritengo importanti. Per farlo, tuttavia, devo partire da lontano.

Con la nascita degli Stati nazionali, la scuola divenne uno strumento potente per plasmare i cittadini. Lo Stato accentrò il potere sull'istruzione, introducendo leggi che mettevano ogni scuola sotto il suo controllo. L'obiettivo dichiarato era nobile – istruzione per tutti – ma il rovescio della medaglia era una pericolosa coincidenza tra potere politico e direzione della scuola. Ciò significa che lo Stato decideva tutto, fino ai dettagli minimi, limitando l'autonomia delle singole scuole. Solo molto dopo, e con grande fatica, le istituzioni educative hanno guadagnato un po' più di libertà dallo Stato, ma sempre meno dalle ideologie. Accentrare il potere sul potente mezzo dell'istruzione, si sviluppò con la crescita di idee come il positivismo e l'idealismo, che hanno portato al concetto di "Stato etico", dove lo Stato si sentiva (e si sente attualmente) depositario di ogni diritto e in diritto di guidare la moralità dei cittadini. Le conseguenze di questa visione centralizzata, purtroppo, le abbiamo viste con le due guerre mondiali, con l'avvento del Sessantotto, con l'invenzione delle tecnologie più avanzate e, non per ultima d'importanza, con la "teoria dell'emergenza continua" che dal 2020 gode di sana e robusta costituzione.
 
In quasi tutta Europa gli Stati hanno mostrato questa tendenza "etica" nella politica scolastica. In Italia, in particolare, la riforma Gentile del 1923 ne fu un esempio lampante: il ministro Gentile si vantava che a una certa ora, tutti gli studenti italiani facevano la stessa cosa, dalle Alpi alla Sicilia. I programmi erano rigidissimi, il controllo sui contenuti era totale e monolitico. Questo ha contribuito a diffondere un certo tipo di messaggio, soprattutto quello idealista, per generazioni. Quando un messaggio viene trasmesso in modo così monolitico, come quello idealista, e passa di generazione in generazione, tende a deteriorarsi e confondersi. L'idealismo, nella sua forma semplificata, è arrivato fino ai maestri delle elementari, plasmando la loro formazione. Questo significa che per decenni (dal 1923 in poi), le concezioni idealistiche hanno permeato ogni livello della scuola italiana, sia statale che non statale. Non si trovavano in passato scuole con approcci filosofici diversi, a riprova di questo controllo "ideologico".

Attualmente, infatti, basta leggere gli indici di qualunque libro delle elementari, per farsi un'idea di come, nonostante la cancellazione dei programmi scolastici, in realtà i bambini abbiano ancora il dovere di imparare alcune discipline in un dato modo. Solo da quando alcune scuole - parentali, paritarie o non paritarie - hanno giustamente approfittato della possibilità di offrire altri strumenti agli allievi, che la didattica sta cambiando a piccole macchie di leopardo, grazie - soprattutto - a docenti che, nonostante siano costretti a subìre l'influenza di docenti universitari a cui viene rimossa la muffa la mattina prima delle lezioni (anche se hanno meno di quarant'anni), decidono di buttare letteralmente nel gabinetto ore ed ore di studio, euro su euro di tasse universitarie, e si assumono (quando ci riescono) la responsabilità di mutare la loro didattica in virtù della salute psichica dei giovani allievi. 

Dei piccoli esempi. L'esistenza di bambini con DSA ha messo a dura prova la concezione secondo cui il bambino che non impara non si impegna ed è un decerebrato. Certo, poichè i corsi per aggiornarsi non sono obbligatoriamente quelli sui DSA, abbiamo docenti preparati e docenti che, ancora, non hanno capito nulla (come ho raccontato qui). Il che rende frizzante e simpaticamente dispendioso anche un percorso di studi in una scuola statale a causa dei supporti esterni che è necessario adottare per evitare che un allievo maturi la convinzione di essere un demente. Sempre per fare un delizioso esempio, ricordo che la pimpante esistenza di Esperti che considerano le madri delle idiote alle quali impartire indicazioni facendo forza sul senso di colpa o sul principio economico secondo cui le mamme sono solo delle donne che sono inciampate in uno spermatozoo, hanno sgravato il prodotto del concepimento che ha il diritto di dimostrare di essere performante in quinta elementare a partire dalla obbligatoria e multidisciplinare esperienza all'asilo nido. Eppoi non dimentichiamo le farfallose psicopedasuperinfluencers newMontessori, che loro sanno assolutamente come pesare bene sul cuore delle madri, che vivono la loro vita scrollando ossessivamente - quando sono al gabinetto -video su instagram o tiktok cercando di afferrare il virtuoso suggerimento per evitare che il figlioletto diventi un sexoffenders o un serialkiller munendolo di giochini di legno e accessori necessari per aumentare il suo QI. Questo perchè da decenni le donne si sono disabituate a sapere che la maternità è anche un istinto da condividere con altre donne e che non deve essere delegato a chi dice di saperne di più, ma vissuto con semplicità e avendo la possibilità di stare coi figli aggiustando il tiro rispetto a chi ci ha preceduto che dice costantemente di essere stato meglio ma non rendendosi conto che l'attualità è figlia di un passato brutale e narcisista. 

La situazione precedentemente illustrata è andata a creare una scuola che non vede l'istruzione come un modo per sviluppare l'autonomia individuale, ma come una trasmissione di valori e l'opportunità di manipolare una civiltà poichè questa si trasformi "in blocco". Le nozioni che da decenni sono insegnate non vengono impartite tanto per la loro utilità nella formazione dell'individuo, quanto per la loro capacità di veicolare un ideale globale. In questo mix, principi idealisti e positivisti si sono fusi in un "miscuglio" indistinguibile, dando vita a tre grandi "miti" ottocenteschi (sì, hai letto bene: ottocenteschi) che ancora oggi influenzano il pensiero comune, anche nei media. Due parole sui media, prima di dedicarci ai "miti": attualmente, giornalisti e media sono i principali diffusori di contenuti su scuola ed educazione (e su molto altro come sanità e politica). Quantitativemente, producono un'enorme quantità di articoli e dibattiti. Il problema è che spesso, chi scrive su questi temi non è un esperto del settore, né conosce a fondo le vere sfide delle istituzioni educative. È come se un giornalista sportivo scrivesse di chirurgia: ne parla, ma forse non ha la competenza specifica. Un esempio: Galimberti che afferma - da filosofo e non da pedagogista - che la scuola è una clinica psichiatrica per il riconoscimento dell'esistenza dei DSA, è l'ennesimo esimio Esperto che suppone di sapere le cose meglio, arrogandosi il diritto di argomentare su tutto. Io non parlo di urologia, se faccio l'ostetrica... chiaro il concetto?

Andiamo ai "miti" di cui sopra.

  • Il mito del progresso ineluttabile: l'idea che il futuro sarà sempre migliore del presente e il presente migliore del passato. Questo porta a svalutare la realtà attuale e a idealizzare ciò che verrà, come insegnato da filosofi come Benedetto Croce. È una visione lineare della storia che non tiene conto di possibili regressioni o stasi. È l'idea che il progresso sia sempre buono e ciò che invece c'è stato nel passato, sia sempre negativo. Per adesso ho contato almeno otto docenti dei miei figli che hanno trasmesso costantemente questa cartezza. Spesso si sente dire che "la scuola deve essere digitale", che ogni studente deve avere un tablet, che le lezioni devono essere online o interattive a tutti i costi. Si presume che l'introduzione massiva della tecnologia sia sempre un "progresso" automatico, senza valutare criticamente se porti a un reale miglioramento dell'apprendimento per tutti. Ad esempio, durante la pandemia, la stramaledettissma DAD è stata vista come l'unica via per il "progresso" della scuola, ignorando spesso le disuguaglianze digitali, la difficoltà di relazione a distanza o l'impatto sulla salute psicologica di studenti e docenti. Non si è riflettuto abbastanza su possibili "passi indietro" nella socialità o nella capacità di concentrazione. Con tutto quello che ha comportato in termini di salute di bambini e adolescenti. Si insiste molto sull'acquisizione di "competenze per il XXI secolo" (pensiero critico, coding, intelligenza artificiale, ecc.) come se il passato non avesse nulla da offrire. Questo porta a svalutare l'importanza delle basi culturali e umanistiche o dei saperi tradizionali, considerandoli "vecchi" o "inutili". Si presume che preparare i ragazzi a un futuro tecnologico incerto sia intrinsecamente meglio che fornire loro un solido bagaglio di conoscenze e strumenti mentali più ampi e duraturi. Molto, per esempio, iniziò con il rimuovere il latino dalla scuola media, o si è trasformato il Medio Evo in un periodo "buio" o si è deciso che la Divina Commedia non è abbastanza femminista.
  • Il mito dell'autosufficienza della ragione: la convinzione che la ragione umana possa risolvere ogni problema. Questo mito è evidente nelle politiche scolastiche globali (pensiamo all'ONU, UNESCO), dove si pensa che "più insegnanti" o "più ore di lezione" equivalgano automaticamente a una scuola migliore, senza considerare la qualità della formazione degli insegnanti o le reali esigenze degli studenti. Potrei serenamente perdermi nelle parole vuote e puffose di molti PTOF che ho letto in questi decenni di scolarizzazione dei miei figli, per dirne una. A livello globale (e spesso ripreso da organizzazioni come l'OCSE nei suoi rapporti PISA), c'è una forte tendenza a valutare la qualità dell'istruzione basandosi su classifiche e punteggi standardizzati, come fanno i pediatri e le testate giornalistiche che affermano con incontrovertibilità che i bambini che frequentano asilo nido e scuola dell'infanzia saranno più intelligenti (=avranno voti più alti): poi, se costoro saranno frustrati, depressi, delusi dalla vita, questo..bhe: cavoli loro. Sarà stata colpa dei genitori.
    L'idea è che "più alto è il punteggio medio" o "più ore si fanno di una materia", migliore sia la scuola. Questo ignora la qualità della didattica, la motivazione degli studenti, il benessere psicologico, la relazione docente-studente, o il contesto socio-culturale. Si pensa che aumentare il numero di ore di matematica o introdurre test standardizzati "risolverà" i problemi della scuola, senza considerare come vengono formati gli insegnanti o le reali esigenze emotive degli studenti. Il dibattito attuale sull'aumento delle ore in alcune materie o l'introduzione di nuovi test standardizzati rispecchia proprio questo mito. La scuola statale è un'invenzione recentissima della Storia, legata a doppio filo con l'industralizzazione e l'obbligo - ammantato di guanti vellutati - femminile a dedicarsi al lavoro anzichè al tempo coi figli piccoli.  Oppure mi sovviene il fatto che si vorrebbero importare modelli educativi da altri paesi (ad esempio, le scuole nordiche o asiatiche) basandosi sui loro risultati numerici in test internazionali, con la convinzione che applicando quelle "ricette" si otterranno automaticamente gli stessi risultati. Si tralascia di considerare che ogni sistema educativo è immerso in una cultura, una storia e un contesto sociale specifici, e che ciò che funziona altrove non è sempre replicabile tale e quale. È l'idea che la ragione pura, applicata a dati quantitativi, basti a risolvere ogni complessità educativa.
  • Il mito della storicizzazione dei valori: l'idea, tipica dell'idealismo, che i valori non siano eterni ma cambino continuamente con la storia. Nelle scuole, questa "dialettica" è stata spesso semplificata fino a giustificare affermazioni contraddittorie come entrambe vere. Questo ha creato una grande confusione, che alimenta un approccio frammentato all'educazione. Oggi si discute molto su come affrontare figure storiche, testi classici o eventi del passato che contengono elementi problematici rispetto alla sensibilità odierna (es. figure coloniali, testi con linguaggi considerati offensivi). Il rischio, per alcuni, è cadere nel relativismo estremo, dove ogni valore è "storicamente contingente" e quindi potenzialmente "superato". Questo può portare a semplificazioni eccessive o a giustificare la decontestualizzazione di opere o personaggi, creando confusione sul significato di verità storica e valore etico, e rendendo difficile insegnare una gerarchia di valori condivisi o universali. Si tende a giustificare posizioni contraddittorie ("quella cosa era giusta per l'epoca, quindi va bene così" e allo stesso tempo "oggi è sbagliata, quindi va eliminata") senza una riflessione profonda. In un contesto di crescente attenzione alle diverse identità e sensibilità, a volte si osserva una tendenza a considerare ogni posizione come ugualmente valida e "storicamente determinata". Questo può portare, in ambito scolastico, a difficoltà nel definire un nucleo comune di valori e principi etici. Ad esempio, il dibattito su come affrontare temi delicati (come l'identità di genere o le questioni sociali complesse) rischia di cadere in un relativismo dove la "verità" diventa puramente personale e variabile, rendendo difficile il dialogo costruttivo e la costruzione di un'etica condivisa basata su principi solidi e non solo su "opinioni" momentanee. Senza contare - ma ci arriviamo dopo - che il mainstram, il pensiero politicamente corretto, ha emancipato alcuni adulti dal dovere di rispettare le idee personali di studenti e allievi, consegnando loro il diritto all'arroganza e al giudizio sommario. Un esempio: mia figlia fu letteralmente aggredita dai compagni quando disse di essere contro l'aborto; mio figlio (in terza elementare) fu cacciato fuori dall'aula virtuale quando rispose che non era vaccinato contro il Covid; l'altra figlia fu esclusa dalla foto di classe quando si presentò coi calzini appaiati il giorno dei calzini spaiati...
    La "dialettica" diventa un modo per affermare due posizioni opposte contemporaneamente, senza una sintesi o un giudizio critico. Per esempio potremmo parlare a proposito del dibattito sui "classici" e il curriculum scolastico. Oggi si discute molto se e come inserire nel programma di studi testi o autori considerati "classici" (ad esempio, Dante, Manzoni, ma anche filosofi o storici del passato). A volte, si tende a dire: "Quei testi riflettono valori di un'altra epoca, non sono più attuali per i ragazzi di oggi". Si rischia di relativizzare troppo il valore intrinseco di opere che, pur nate in contesti storici diversi, veicolano temi e spunti di riflessione universali (come l'amore, la giustizia, il potere, la condizione umana). Cosa succede in pratica? Alcuni programmi o approcci didattici potrebbero ridurre lo spazio per lo studio approfondito di certi autori o periodi storici, con la giustificazione che "i valori sono cambiati" e che quindi si debba dare spazio solo a ciò che è percepito come "moderno" o "rilevante" per il presente. Questo, però, può impoverire la formazione, impedendo agli studenti di confrontarsi con un patrimonio culturale vasto e di sviluppare un senso critico basato anche sulla comprensione delle radici storiche dei valori. Ritorno sul dramma enorme circa ilpresunto diritto che gli insegnanti si arrogano di parlare di temi etici e sociali complessi in classe. L'introduzione della stramaledetta Agenda 2030 ha liberato ore ed ore di Educazione Civica obbligatoria dove gli insegnanti debbono affrontare discorsi su temi come l'identità, l'inclusione o la sostenibilità ambientale. A volte, la concezione che "i valori cambiano" può portare a un approccio dove si evita di esprimere un giudizio o di proporre una direzione etica chiara. L'idea è che "ognuno ha la sua verità" perché i valori sono fluidi e personali, o che "dipende dal contesto storico": e su questo Papa Benedetto XVI nella sua sintesi "dittatura del relativismo" fu profeta assoluto. L'insegnante potrebbe trovarsi in difficoltà a guidare una discussione verso una conclusione che affermi dei principi etici non condivisi dai media, per paura di essere percepito come "dogmatico" o "non inclusivo". Invece di aiutare gli studenti a discernere tra diverse posizioni basandosi su argomentazioni solide e valori ampiamente riconosciuti (come il rispetto della dignità umana, la giustizia sociale), si finisce per accettare ogni opinione come ugualmente valida, senza una reale guida. Questo può generare confusione e un senso di relativismo etico, dove "tutto è relativo" e quindi "tutto va bene", rendendo difficile costruire un fondamento morale solido. Per non parlare dell'isolamento e lo stigma che ricevono gli studenti che provano ad affermare alcune loro convinzioni: gli insegnanti attuali paiono non essere in grado di accettare che lo studente - prendendo per buono il diritto di maturare 'spirito critico' - possa mostrare opinioni diverse dal mainstream. In diverse scuole, inoltre, la narrazione storica può essere influenzata da questo mito. Si tende a presentare gli eventi passati non tanto per comprenderne la complessità e le lezioni (anche etiche) che ne derivano, ma piuttosto per mostrarli come un mero susseguirsi di contesti in cui "i valori erano diversi". Mi sovviene mio figlio che mi raccontò che la docente di sostegno (!) dichiarò che la Chiesa sia sempre stata contro la scienza. A parte che sei lì per aiutare gli studenti in difficoltà sul Teorema di Pitagora, ma sei assolutamente certa che il tuo titolo di studio ti conferisca la Saggezza Infinita Superiore a tutto?
    Se portato all'estremo, questo può portare a una de-responsabilizzazione o a una difficoltà nel condannare azioni del passato che oggi consideriamo universalmente inaccettabili. Cosa succede in pratica? Si può assistere a una sorta di "giustificazione storica" di certi comportamenti o ideologie (vedasi la Rivoluzione Francese che viene venduta come grande evento meraviglioso e illuminato, quando si trattò di un'ecatombe), oppure a una difficoltà nel tirare fuori insegnamenti universali da eventi tragici. Ad esempio, nel parlare di genocidi o persecuzioni, il focus potrebbe spostarsi eccessivamente sul "contesto dell'epoca" fino a offuscare la gravità intrinseca delle azioni commesse, senza promuovere un chiaro senso di condanna morale e di difesa dei diritti umani. La "dialettica" diventa un modo per non scegliere, per accettare affermazioni contraddittorie simultaneamente, indebolendo la capacità di giudizio critico basato su valori universali.

Tutto ciò ha portato la pedagogia a frammentarsi in una serie di piccoli "miti" o mode, che si susseguono e spesso vengono innalzati a verità assolute, scatenando "crociate" per difendere una singola metodologia didattica. Il problema di fondo, a mio avviso, è che la visione di scuola ed educazione è spesso influenzata da esperienze personali passate (parimenti a come accade agli Esperti, come scrive la mia cara amica Antonella Sagone ne "La Rivoluzione della Tenerezza", che proiettano le loro esperienze passate e le loro convnzioni personali sugli altri rendendole verità assolute). Molti, dal ministro al cittadino comune, pensano all'educazione in base a come l'hanno vissuta (es. i versi di greco da imparare a memoria, le date di storia). C'è un'emotività diffusa che deriva dalla mancanza di una visione scientifica e da un'impostazione che vede la scuola come qualcosa da cui liberarsi, piuttosto che come un progetto positivo. Bruciare i libri dopo la maturità, come si faceva un tempo, era un simbolo di questo sistema monolitico e della voglia di liberazione.

Per superare questa situazione, dobbiamo liberarci delle "ideologie". L'ideologia prende una parte della realtà e la trasforma nell'unica chiave di lettura. Finché la scuola sarà vista in termini ideologici, l'educazione resterà un problema politico, e non faremo progressi rispetto a un secolo fa. Dobbiamo guardare al passato in modo diverso, senza i "paraocchi" che ci hanno fatto vedere, ad esempio, la cultura medievale come solo "buia" o "tenebrosa". Per chi si occupa di educazione a livello professionale, è fondamentale tornare a un'antropologia seria, cioè capire davvero cosa significhi essere umani e come funzioniamo. L'educazione non è principalmente compito dello Stato, ma della famiglia. È un ruolo naturale, fondamentale anche per proteggere i figli da una società spesso caotica e per prepararli a essere cittadini responsabili.

A me è chiaro un concetto: virtù come onestà, generosità e lealtà non si imparano a scuola. Questi "abiti" (nel senso di modi di essere profondi, non semplici abitudini) si acquisiscono solo attraverso l'esempio familiare. La scuola, o meglio, l'insegnante, può in seguito richiederne l'applicazione e aiutarne la traduzione in comportamenti, ma le basi vengono dalla famiglia. Se riscopriamo questa funzione enorme e insostituibile dell'educazione familiare (un concetto quasi assente nella storia della pedagogia, a parte per l'antica Roma), possiamo anche ripensare l'istruzione. Non più come semplice trasmissione di nozioni da "grandi sistemi" politici o filosofici, che negli ultimi decenni hanno creato due tipi di risultati: studenti "adatti" o "disadatti" al sistema. Questi ultimi, un tempo, avrebbero "contestato" il sistema, ma oggi spesso lo vedono già crollato dall'interno. Dobbiamo guardare all'istruzione in modo positivo: come il processo che fornisce alle nuove generazioni gli strumenti per la libertà, gli strumenti del cittadino. Quelli che un tempo il buon senso popolare chiamava semplicemente leggere, scrivere e far di conto, ma con un significato più profondo: l'educazione e l'istruzione dovrebbero equipaggiare gli individui con le capacità critiche per navigare il mondo, partendo da basi solide che solo la famiglia può dare.

Torniamo ad Anna Maria che senza volerlo mi aiuterà nel mio ragionamento. Di Lei rimangono ricordi che sua madre custodì gelosamente. Un ricciolo biondo, un paio di guantini invernali, e ricordi di scuola. Quadernini, scritti in bella grafia. E la pagella, nella quale ho evidenziato il particolare con le materie della scuola elementare. Le materie sono allettanti e molto più moderne e necessarie di quelle attualmente proproste anche se, postpandemia, avrei paura di "igiene e cura della persona" perchè significherebbe probabilmente solo 'mascherine, gel disinfettante e isolamento sociale'. Anche 'Religione' non mi incuriosisce poichè il Fascismo non era certo simbolo di competenza sulla Fede. Le altre materie potrebbero sembrare 'dittatoriali', e bollare la sottoscritta come nostalgica se mi arrischiassi in complimenti sul resto delle discipline proposte ('canto' e 'lettura espressiva' credo siano lacune corpose della nostra scuola), potrebbe sembrare ovvio. Il problema è che la Scuola non è cambiata di una virgola. 


Se Anna Maria aveva 'lavori donneschi e manuali' (al netto che attaccare un bottone non sarebbe male né per maschi né per femmine) che dire delle prelibate e incantevoli lezioni frontali di "Educazione alla Promiscuità e alla Masturbazione" che vengono quotidianamente proposte nelle nostre scuole di ordine e grado? 
E che dire della piccola Anna Maria alla quale veniva insegnanto a disegnare il fascio littorio o a inneggiare al re, se paragoniamo le splendide pagine dei libri di Educazione Civica Indottrinale che inneggiano alle mascherine come fossero il baluardo delle libertà individuali? 


Quindi, cari insegnanti e cari genitori, stare sul pezzo coi figli e con gli allievi significa studiare approfonditamente il modo di pensare con la vostra testa e, piuttosto, di affermare con convinzione che ognuno di noi è capace di stare, di esserci. Le ideologie che la scuola governativa impartisce dall'alto non saranno mai capaci di assorbire l'onda durto dei danni a breve e lunga scadenza che stanno affliggendo le generazioni attuali. Ecco perchè, piuttosto che delegare ad altro (per esempio l'Educazione Civica scritta nei libri), ci si pone da esempio assumendosi l'onere di essere un buon esempio. 

Sì perchè ogni volta che mi sono trovata di fronte a un figlio bullizzato, non ho visto compagni o compagne stronzi (anche se ce ne sono ricordiamoci di far intrecciare ai figli amicizie vere ben lungi dai banchi di scuola: impareranno che 'amico' e 'compagno' non sono sinonimi), ma educatori incapaci, adultescenti e disfunzionali. 

Cara Anna Maria, non sei mai stata dimenticata, non sei stata mai un semplice ricordo, ma eri vivida nelle canzoncine che canticchiavi con la tua sorellina. Soprattutto però sei stata l'ultima che Marisa voleva a tutti i costi incontrare. E probabilmente la prima che ha incontrato una volta chiusi gli occhi per sempre.





Grazie a tutti i contributi del professor Giuseppe Fioravanti